La recentissima entrata in vigore della Riforma della giustizia italiana, che prende il nome dell’ex- Ministro Marta Cartabia, ammette nel codice penale italiano i principi della « giustizia riparativa ». L’ex-Ministro, chiamata in forza dal Governo Draghi, è da sempre vicina al movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione, e infatti, a conclusione del mandato di Governo, è stata immediatamente nominata membro ordinario della Pontificia accademia delle scienze sociali. Già prima, il suo contributo in ambito accademico spiccava per la decisa difesa del diritto dell’esposizione di simboli religiosi in spazi pubblici – e più in generale per il suo approccio ai conflitti ispirato alla metodologia della americanissima reasonable accommodation.
La Riforma di cui è autrice sta avviando una trasformazione storica, producendo l’innesto nel nostro ordinamento di riferimenti che evocano la figura del padre misericordioso che redime i peccati. Nella prospettiva della giustizia riparativa, il crimine è concepito come un fatto sociale, dunque la questione dell’inquadramento della responsabilità individuale del reo scivola in secondo piano rispetto alla necessità di sanare il crimine, considerato come una ferita inferta al tessuto sociale che richiede una sorta di cicatrizzazione. La prospettiva dunque è sociologica e si avvale del linguaggio psicoanalitico, che tuttavia ignora. La riparazione è attesa dall’ufficio della mediazione a cui partecipano un aggregato di figure prese dall’ambito giudiziario e da quello socio-assitenziale (anche privato), che insieme dovrebbero operare una sorta di salutare redenzione del crimine. La nascita della giustizia riparativa moderna risale a un esperimento giudiziario in ambito minorile avvenuto in un paesino del Canada e negli anni 70 ha preso velocemente piede in Usa, in Australia e in Nuova Zelanda, paesi con un ordinamento legale di stampo anglosassone, ma anche accomunati da una radicata morale protestante. Tale prospettiva è sbarcata tardivamente nel vecchio continente e solo nel corso degli anni 2000 vi ha fatto ampi passi avanti, fino a conquistare pienamente la scena, proprio qui in Italia. Tale veloce ascesa non è ascrivibile al presunto vantaggio che questa assicurerebbe all’ingorgo penale e alla penosa condizione delle carceri, la letteratura infatti riporta che : « La giustizia riparativa non ha avuto un effetto deflattivo per i sistemi penali : al contrario ha permesso di prendere in considerazione situazioni che, in precedenza, venivano fatte oggetto di archiviazioni da parte del pubblico ministero »[1]. La ricerca delle ragioni della new wave in Europa, allora deve essere ricercata altrove.
La cultura italiana si distingue in Europa per la capacità di far risuonare la narrazione cattolica e quindi è maggiormente propensa a considerare una chance riparatoria, sul modello evangelico, piuttosto che impartire pene secche, più bibliche. In un libro che la Cartabia ha dedicato all’analisi delle idee di giustizia, di pena e di riconciliazione del cardinale Carlo Maria Martini, esprime la convinzione che l’uomo possa « sempre essere salvato »[2]. Quali straordinari poteri salvifici si intenderebbe dunque attribuire a questi mediatori, categoria indefinita e fluida, nuovi beniamini che – superando il valore deterrente della pena – ambiscono ad essere i portatori di valori condivisi ? E poi, condivisi da chi ? Sbiadendo la netta contrapposizione – propria del procedimento penale tradizionale – che distingue l’interesse dello Stato (rappresentato dai pubblici ministeri) e le responsabilità individuali di imputati e testimoni, la mediazione riparativa rischia di far sprofondare il crimine nell’ambiguità, favorendo la possibilità che il mediatore divenga il dispensatore di un godimento. Lo slogan della redenzione che muove la frenesia a riconciliare le parti può produrre l’incentivo a una sbrigativa negoziazione degli interessi di rei e vittime, con l’ovvio prevalere della parte più forte, che in genere non coincide con la vittima. Ad esempio, senza il Processo di Norimberga sarebbe mai stato possibile arrivare alla definizione di « crimine contro l’umanità », proprio dei Capi di Stato ?
Rispetto al rischio di liquidare il principio della responsabilità soggettiva, il valore dell’Altro, la psicoanalisi è radicale. Schierarsi a favore della responsabilità soggettiva, non assecondare il rigonfiamento immaginario del padre misericordioso, contrastare l’assioma della riparazione del crimine, non significa scadere in posizioni vendicative, tanto meno assecondare posizioni forcaiole, ma far valere le basi dell’etica psicoanalitica.
[1] Boucard, M. « Breve storia (e filosofia) della giustizia riparativa » in Questione Giustizia n.2/2015; p. 68. Disponibile su internet : https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/pdf/12/qg_2015-2.pdf.
[2] Carabia, M.; Cerretti, A. « Un’altra storia inizia qui » Bompiani, 2020.
Immagine : © Pierre Buisseret