L’altra faccia del patriarcato – Danièle Olive

© Martine Souren – http://www.martinesouren.be/

Il documentario di Laura Poitras, Toute la beauté et le sang versé[1] [Tutta la bellezza e il dolore titolo del film in italiano N.d.T], a cui è stato assegnato il Leone d’oro alla Mostra di Venezia, ci porta nel cuore delle battaglie artistiche e politiche di Nan Goldin, grande fotografa e figura della contro-cultura newyorkese degli anni 1970-1980.

Il trauma

Barbara, la sorella maggiore di N. Goldin, ha svolto un ruolo materno per lei, dal momento che la loro madre non vi era portata. Giovane ribelle, messa in una istituzione psichiatrica, Barbara si suicida all’età di diciotto anni, Nan ne ha undici. Nonostante i tentativi per nasconderle le circostanze del dramma, lei coglie il ruolo che la repressione della sessualità aveva svolto in questa autodistruzione. Nel 1960, « Les femmes en colère, qui revendiquaient leur sexualité, faisaient peur, leur comportement était incontrolable, au-delà de l’acceptable »[2] [N.d.T : le donne arrabbiate, che rivendicavano la loro sessualità, facevano paura, il loro comportamento era incontrollabile, al di là dell’accettabile]. Questo dramma è alla base del lavoro artistico di N. Goldin. Fuggire dalla famiglia per sopravvivere diventa presto una necessità. L’incontro con il suo amico David Armstrong, poi con la fotografia, la riporta alla vita. Frequenta un gruppo di drag-queens che trascorrono le loro notti in un locale gay di Boston chiamato The Other Side. « Le sue prime foto raccontano questi giovani di un altro genere che l’America sembra rifiutare di vedere. È il debutto di un’ossessione, attraverso loro e attraverso la macchina fotografica che si porta dietro, dappertutto, Nan Goldin inventa una nuova famiglia e una vita nuova, di cui lei costruisce e condivide la memoria in tempo reale. »[3]

Nel 1979, la presentazione di una proiezione di diapositive intitolata The Ballad of Sexual Dependancy la rende celebre : « la proiezione […] stupisce e piace tanto quanto disturba. [Questa è] di solito destinata alle serate […] in famiglia a guardare i ricordi delle vacanze. Non rientra nei codici di esposizione della fotografia nelle gallerie [degli anni 1970]. Successivamente, sono le immagini stesse a sconcertare per il loro rifiuto totale […] di ogni accademismo. Esse affermano una pratica inedita della fotografia, [che mostra] la bellezza degli esseri, lontano dai codici stabiliti dal medium »[4]. Interrogano le nozioni di genere e normalità.

N. Goldin sovverte la foto di famiglia per fornire una cornice ad uno sguardo che va oltre le apparenze. Alle immagini convenzionali di felicità condivisa, ai luoghi comuni di sua sorella come ragazza raggiante, sostituisce in modo radicale la propria vita, la propria intimità e quella delle persone a lei vicine. « Il personale è politico », questo slogan degli anni 1970 si adatta a questo lavoro che mantiene una costante oscillazione tra ritratto e autoritratto, una indeterminatezza tra la storia personale e quella di una comunità[5].

Al di là dell’aspetto storico, del binario permesso/vietato, della lotta contro l’annullamento delle persone che non sono conformi, la sua determinazione a mostrare tutto fa venire in primo piano i corpi colpiti e dà forma, al di là dell’immagine speculare, al segno della vita e della morte sul corpo. N. Goldin fa, così, sua questa indicazione di Lacan : il godimento « si abbordi anche in pratica solo tramite le erosioni che vi si tracciano a partire dal luogo dell’Altro [e che] il luogo dell’Altro non è da cogliere altrove che nel corpo »[6].

Sopravvissuta ad una overdose di Oxycontin, N. Goldin partecipa nel 2017 al collettivo PAIN[7] in lotta contro la famiglia Sackler, una famiglia di rinomati mecenati e responsabili della crisi degli oppioidi negli USA e nel mondo. Facendo pesare il suo nome contro il loro, ottiene il ritiro di questo nome dai più grandi musei, marchiandolo così con il sigillo dell’infamia. Due dei suoi video ci colpiscono : in uno la famiglia Sackler, costretta ad uscire dall’ombra, compare di fronte alle famiglie delle vittime ; nell’altro la lettura da parte dei suoi genitori di un testo di Joseph Conrad, legato a Barbara e alla sua morte, fa emozionare.

Al di là della denuncia del potere mortifero del patriarcato e delle norme, far emergere la vergogna per alcuni, il dolore per altri, risponde al desiderio di N. Goldin : la fotografia come modo di toccare l’altro[8] e, a sostegno della sua arte-sintomo, produrre una traccia di umanità.

Riferimenti bibliografici dell’autore :
[1] Poitras L., All the Beauty and the Bloodshed, film documentaire, États-Unis, 2022.
[2] Goldin N., Actes Sud/Les cahiers de la Collection Lambert, 2020, p. 28. (traduzione libera del traduttore)
[3] Delvaux M., Herd J., « Comment faire apparaître Écho ? Sœurs, saintes et sibylles de Nan Goldin et Autoportrait en vert de Marie Ndiaye », Protée, vol. 35, n°1, printemps 2007, p. 29-39, disponibile sur internet : https://www.erudit.org/fr/revues/pr/2007-v35-n1-pr1756/015886ar.pdf. (libera traduzione del traduttore).
[4] Goldin N., op. cit., p. 30(traduzione libera del traduttore).
[5] Cf. Delvaux M., Herd J., « Comment faire apparaître Écho ? … », op. cit. (traduzione libera del traduttore).
[6] Lacan J., « La Logica del fantasma Resoconto del seminario 1966-1967 », Altri Scritti, testi riuniti da J.A.Miller, edizione italiana a cura di A. Di Ciaccia, Piccola Biblioteca Einaudi, p. 323.
[7] Prescription Addiction Intervention Now (grande dolore).
[8] Cf. Delvaux M., Herd J., « Comment faire apparaître Écho ? … », op. cit.

Traduzione : Rita Ungania
Revisione : Mirella Riccardi

Immagine : © Martine Souren